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Tiktok, una "finestra" in cui solitudine e ritiro sociale vengono espressi apertamente

Nell’odierna società post-moderna e post-digitale, i social network rappresentano sia un’opportunità sia un rifugio sotto cui ripararsi da una realtà percepita come intollerabile o poco affrontabile. L’individualismo imperante, che attornia e accompagna il nostro modo di vivere, unito ad una forma di narcisismo perverso, trova terreno fertile in queste piattaforme virtuali. L’autostima di ciascun* finisce per essere inghiottita, alimentata o dipesa dai like ricevuti, delegando agli altri (amici/nemici) il nostro benessere psichico, anziché a noi stessi. I contenuti condivisi mirano alla perfezione artistica e alla precisione degli elementi fotografici che irrompono nella scena. La “felicità” ostentata a tutti i costi diventa il leitmotiv che deve marchiare ogni millimetro del soggetto/oggetto rappresentato. 

L’ossessione patologica per il cibo (piatti ricchi di pietanze succulenti alla #foodporn), per gli animali (soprattutto cani e gatti) e per i paesaggi (italiani e non) viene tacitamente accettata e messa in moto da tutti, indistintamente. È chiaro come si stia parlando proprio di Instagram e di Facebook (e similari). Il tocco di classe a questa particolareggiata isola felice, lo forniscono le cosiddette “storie” della breve durata di 24h, inserite a partire dal 2016 su Instagram, adottate solo dopo anche da Facebook e Whatsapp. L’invenzione di questo strano, e all’apparenza inutile, meccanismo porta con sé un suo motivo di esistere: l’importanza, ma oserei dire il bisogno viscerale, delle visualizzazioni ai contenuti che si condividono. Il fatto, cioè, di poter avere, fra le dita, la certezza di essere stati notati agli occhi dei followers. Tale senso di sicurezza contribuisce a calmare il bisogno incolmabile di ricevere conferme e rassicurazioni dall’esterno. 

La solitudine e il ritiro sociale, fenomeni tutt’altro che rari in epoca nostra, sono argomenti tabù che non devono essere rivelati sui social. La mania di doversi mostrare accerchiati da un gruppo di persone (che siano amici/parenti di fatto o solo di nome), in una storia temporanea o in un post permanente, fra sorrisi reali o ipocriti, poco importa. L’importante è ricevere le visualizzazioni e i like sufficienti per placare il vuoto che ci si porta dentro, dimostrando agli altri che non si è soli (o forse sì) e che si è “normali” come tutti (o come nessuno). 

Ciò, però, non accade sull’ultimo social che ha riscosso un grande successo fra giovani e giovanissimi e che si sta oramai estendendo a tutte le fasce d’età: TikTok. Questa piattaforma, rischiosa per bambini e adolescenti (vedi recenti casi di cronaca nera), ha una sua particolarità: quella di poter “scorrere”, col pollice, video verticali (popolari o meno) in un tempo pressoché infinito, sin dal primo momento in cui l’applicazione viene aperta. Questi si estendono su tutta la superficie dello schermo, dunque molto persuasivi in termini visuo-percettivi, tanto da portare ad una vera e propria forma di dipendenza. Il fascino di TikTok deriva dalla sua peculiare attitudine a romanzare e a romanticizzare la vita quotidiana, la routine, rendendola più piacevole ed attenuandone il risvolto tedioso. Ma tra simpatici monologhi, scenette tragicomiche, balletti improvvisati, botta e risposta umoristici e riprese mozzafiato di paesaggi sublimi accompagnati da colonne sonore altrettanto celestiali, si erge un lato oscuro perlopiù di natura adolescenziale (ma non sono da escludere i giovani adulti). È il lato depressivo dettato dalla solitudine che emerge con prepotenza, senza remora né vergogna. Questa tipologia di video è accompagnata, di solito, da un lento al pianoforte dal carattere pressoché nostalgico e malinconico, oppure da una pseudo melodia elettronica soffice e delicata, quasi in sordina. Tipica è la ripresa, ad immagine ferma, di un angolo della propria casa, ad esempio una finestra durante una giornata piovosa o verso l’imbrunire (come a simboleggiare il desiderio di fuga e di libertà da un senso di schiacciante prigionia), e inserite in sovrimpressione alcune frasi sparse del tipo “Ma, quindi, sono l’unico a non avere completamente amici? ”, “Mi sento tremendamente solo.” “Non ho nessuno con cui passare l’estate.”, “Nessuno con cui confidarmi.”, “Nessuno con cui guardare le stelle.”, “Nessuno con cui andare al mare.”, “Nessuno con cui piangere.”, “Nessuno con cui passeggiare.”, “Nessuno con cui ridere.”. 

La gravità di tali rivelazioni profonde si mostra evidente agli occhi di tutte le spettatrici e gli spettatori casuali che, scorrimento dopo scorrimento, si ritrovano ad empatizzare con quegli stessi sentimenti (chi più chi meno) che fino a quel momento non erano mai riusciti ad esprimere pubblicamente e in maniera così “nuda”. E che finiscono, in quel potente e magico istante, per sentirsi meno soli: esiste qualcun altro come loro. Non a caso, questi brevi filmati tendono a diventare popolari, raggiungendo migliaia e migliaia di like e commenti a sostegno.

Cosa si può dedurre da questa breve riflessione? Innanzitutto, l’importanza di prendersi cura della propria salute mentale, allo stesso modo di quella fisica. Viviamo in un sistema sociale, economico, politico e culturale che è frenetico, competitivo, individualistico, dove i disturbi psicologici vengono condannati e classificati come “debolezze” da non svelare in un mondo invincibile, dove i disagi e le sofferenze – tipici dell’esistenza umana – non sono ammessi. Questa forma di castrazione e di privazione della naturale espressione del dolore è letale. L’essere umano è un animale sociale e collettivo che necessita di stare in relazione e lo Stato, la società tutta, dovrebbe agevolarlo in questo, farsene carico attraverso la promozione di iniziative e progetti che mirino a creare un senso di comunità e di sincera unione, a cominciare dall’inizio del suo percorso scolastico e formativo. 

Nascondere la propria solitudine dietro ad autoscatti sorridenti, goliardiche foto di gruppo o brevi filmati autocelebranti lo scorrere della propria giornata, esprimendo tutt’altro, può funzionare come momentanea strategia di autoconvincimento. Ma se dentro ci si sente morire, occorre intervenire alla radice del problema. È chiaro che un mondo non forsennatamente competitivo e affannosamente arrivista come il nostro, in cui occorre sgomitare per poter avere un ruolo nella compagine sociale, permetterebbe di vivere molto più serenamente e in sintonia con se stessi, gli altri e la natura. Mancando ciò, sarebbe bene avere l’umiltà di accettare il proprio malessere e decidere di intraprendere un percorso di miglioramento: una prima forma di riscatto da una condizione di inerzia che, molto facilmente, ci sta divorando già da troppo tempo.  


Dott.ssa Alessia Goldoni
Psicologa e Sociologa

Pubblicato su "Tempo", settimanale di Radio Bruno - Mercoledì 23 Giugno 2021




Il Covid ci rende più poveri e più ignoranti? ATTIVITÀ CULTURALI DA INIZIO SECOLO ALLA PANDEMIA DA COVID-19

I consumi “culturali” rimandano a quelle pratiche che occupano, o che dovrebbero occupare, il tempo libero dei cittadini: andare a teatro per assistere ad uno spettacolo di danza o ad un concerto; visitare un museo per rivivere i reperti archeologici di qualche lontana civiltà; leggere una rivista, un romanzo d’evasione, un saggio critico o un’opera di narrativa; apprendere le notizie da un giornale; cimentarsi nella lettura di un periodico dedicato all’arte o godersi un graphic novel; partecipare ad un festival della filosofia; ascoltare un genere musicale piuttosto che altri o conoscerne di nuovi arricchendo così il proprio repertorio; fruire di programmi televisivi che accrescono le proprie conoscenze (e quindi in-formativi) o, al contrario, di mero intrattenimento, così come per il cinema. Questi sono esempi di pratiche culturali che, da una prospettiva individualistica, determinano un’accumulazione di esperienze che noi tutti elaboriamo e immagazziniamo allo scopo di interpretare e di attribuire senso agli eventi di vita. 

L’indagine di FEDERCULTURE (2019) ha analizzato l’andamento del consumo culturale in Italia dal 2000 al 2019. Ne è emerso come, nel primo decennio, ci sia stato un aumento di fruizione in tutti i settori della cultura presi in esame: lettura, teatro, cinema, musei e mostre, siti archeologici e monumenti, concerti. Al contrario, nel secondo decennio (probabilmente a causa della gravissima crisi economica del 2008), la partecipazione culturale ha registrato un importante calo pressoché in tutti gli ambiti. Nel settore dei musei e delle mostre, nonché in quello dei siti archeologici e dei monumenti, la crescita è rimasta costante, soprattutto perché le città d’arte, così ricche di storia e di bellezza, si sono trasformate in mete turistiche per una pluralità di fruitori.

La rilevazione ISTAT riferita all’anno 2019 sul dato dell’inattività culturale ha mostrato un quadro decisamente sconfortante con l’astensione da ogni attività culturale in allarmante crescita: ben il 20,7% della popolazione ha dichiarato di non aver fruito, negli ultimi 12 mesi, di spettacoli o intrattenimenti e di non aver letto alcun quotidiano o libro. 

A dare il colpo di grazia è stata la pandemia da Covid-19 che, insieme all’aumento spropositato della povertà, ha causato un contraccolpo enorme sconvolgendo, come un grande reset, i dati sul consumo culturale fino ad allora esaminati. 

Alcuni cambiamenti si sono però mostrati inaspettati. L’analisi condotta da CONFCOMMERCIO (2020) ha mostrato come l’impatto, già del primo lockdown del 2020, sia stato particolarmente elevato, riducendo a zero le attività dal vivo. La cultura si è trasferita sull’ambito digitale con una crescita importante del consumo televisivo (accompagnata da un incremento nell’utilizzo sia di canali sia di piattaforme streaming a pagamento come Netflix) e da un aumento della lettura di libri e dell’ascolto della musica rispetto a prima del lockdown. L’utilizzo di internet è dilagato, anche per la necessità di stare prevalentemente in casa, oltre che per motivi lavorativi e scolastici (a tal proposito, la didattica a distanza – DAD – si è dimostrata inefficace). Gli spettacoli/eventi dal vivo via web non hanno riscosso un successo in termini di fruizione, tanto meno le visite virtuali a musei e siti archeologici, poiché questo settore, insieme a quello teatrale, necessitano perlopiù di una partecipazione dal vivo.

Nonostante l’utilizzo di internet sia in costante aumento, la sovrabbondanza di informazioni offerta dal web non determina meccanicamente più cultura e più conoscenze, anzi: in questo mare magnum sullo scibile umano, parafrasando Leopardi e riadattandolo alla post-modernità digitale, “s’annega il pensiero e il naufragar non è dolce in questo mare”. 

Un ulteriore elemento negativo, in tal proposito, emerge dall’uso smisurato dei social network, in cui ormai si riversano migliaia di persone caratterizzate da scarso livello culturale o da un certo “analfabetismo funzionale”, ovvero, l’incapacità “di comprendere, valutare e usare… testi scritti per intervenire attivamente nella società” (UNESCO, 1984); aldilà di considerazioni di ordine psicologico sulla tipologia di certi odiatori, negazionisti, complottisti, etc.

Oggi, più che mai, occorrerebbe predisporre politiche di stimolo della domanda, distribuendo in maniera equa l’offerta culturale fra tutti i cittadini, promuovendo inclusione e coesione sociale, organizzando e pianificando politiche di sviluppo in accordo anche con altri enti istituzionali (scuole, musei, biblioteche, teatri, conservatori, università, etc.). Conoscere le preferenze e i comportamenti del pubblico della cultura permetterebbe di orientare le decisioni degli istituti preposti, con effetti diretti sullo sviluppo del capitale sociale; soprattutto di quelle persone che non sono state messe nella condizione di acquisire le competenze necessarie per apprezzare certe pratiche culturali. È proprio sul piano culturale che si vincono certe battaglie. 

Una minoranza, purtroppo sempre più numerosa, sta urlando contro i provvedimenti che limitano la libertà, come se stessimo sprofondando verso una sorta di “dittatura”. Ma la vera dittatura pericolosa a cui si può andare incontro, se costoro prevalessero, sarebbe la dittatura degli ignoranti. Come di fronte al calcio tanti italiani si autoproclamano massimi specialisti di tattiche di gioco, ora vediamo sempre più analfabeti da bar emergere dalla fogna dei social come esperti virologi, medici e scienziati.

Ci troviamo di fronte ad una guerra mondiale contro il Coronavirus e, per vincerla, avremo bisogno di persone competenti e preparate. Sarà necessario il massimo sforzo per ricostruire, se non per migliorare, il precedente tenore di vita, sopperendo alle conseguenze devastanti sul piano sanitario, sociale, politico, economico e, appunto, culturale.


Dott.ssa Alessia Goldoni
Psicologa e Sociologa

Pubblicato su "Tempo", settimanale di Radio Bruno - Mercoledì 25 Agosto 2021




VIVIAMO IN UNA SOCIETÀ "OPINIONISTA" IN CUI I FATTI SONO UN OPTIONAL

Uno dei tanti problemi radicati nella nostra società è la tendenza a trasformare la realtà, persino ciò che non conosciamo bene o per nulla, in opinione. Quest’ultima non sarebbe un grosso problema se non fosse prevalentemente basata su stereotipi, luoghi comuni, fake news e “sentito dire”, senza approfondimenti da più fonti comprovate e confronti di alcun tipo.

La recente inclinazione a smentire o a sminuire ciò che viene espresso in modo competente ed altamente qualificato da parte di esperti del settore medico-scientifico, è un enorme problema sociale, oltre che culturale. Quel senso di totale diffidenza che si è andato a formare, nel corso degli anni, nei confronti di una categoria (senza escluderne, purtroppo, tante altre) che fino a pochi decenni fa era del tutto rispettata e verso la quale i cittadini si affidavano ad occhi chiusi, ha radici che ben si coniugano con l’ingente povertà educativa, politica ed economica del nostro Paese. Naturalmente, al senso di diffidenza si accompagna una personale presa di posizione inamovibile, incontaminata, autonoma, da difendere a spada tratta in nome della “libertà di pensiero” fondata su convinzioni proprie non dimostrate scientificamente (un esempio tangibile sono i negazionisti e i movimenti NoVax). 

Inoltre, i ritmi lavorativi incalzanti e la velocità di trasmissione delle informazioni che contraddistinguono il frettoloso mondo post-moderno (reale e virtuale) fanno sì che la nostra mente, attraverso un principio di adattamento e di economicità cognitiva, scelga la via più semplice e meno faticosa, quella, apparentemente, più “efficiente”.  Il risultato di tale processo è limitarsi ad acquisire pochissimi dati da un’infinita mole di notizie, dando vita, se non a confusione mentale, certamente ad opinioni affrettate ed inconsistenti che vengono espresse con forza. 

Esiste, sin dai lontani anni ’70 del secolo scorso, un numero ampissimo di studi e dati scientifici sulla crisi climatica e la distruzione degli ecosistemi. Eppure, l’attuale sistema socioeconomico neoliberista, oltre agli stessi cittadini, continua a farne una questione di parere personale, seminando indifferenza e dubbio su ciò che sta accadendo. È più importante salvaguardare il profitto, il consumismo senza tregua, lo sfruttamento di risorse e lavoratori, la nostra comodità e i nostri lussi. 

I talk show televisivi, poi, sono l’apoteosi dell’opinionismo di massa, dove uno vale uno (cosa apparentemente democratica, se non fosse che non tiene minimamente conto delle differenze di preparazione, di competenze, di studi, di ricerche e di ruoli). L’impoverimento della politica (e della scienza) deriva anche dalla partecipazione di capi di partito, senatori, deputati, consiglieri comunali, scienziati, medici, etc. a trasmissioni televisive ad esclusivo scopo di intrattenimento e di propaganda, dove difficilmente vengono rispettati i turni di conversazione, dove difficilmente si instaura un clima pacifico e di confronto costruttivo, dove difficilmente si guadagnano una buona reputazione e una ferma fiducia da parte degli uditori. In questi contesti, tutto finisce per essere discutibile e messo al vaglio della verità. 

Soprattutto i social network, in seguito, cavalcando la medesima onda, hanno esaltato ed ingigantito fortemente tale andamento, rendendolo accessibile a chiunque (idioti compresi, per dirla alla Umberto Eco): le chiacchiere da bar e i relativi commenti superficiali su questioni sociali, politiche ed economiche sono stati resi pubblici e messi per iscritto, acquisendo così una certa rilevanza e solidità che prima non avevano. 

Realtà, quelle elencate pocanzi, che certamente non facilitano le persone a nutrire stima e riverenza nei confronti di chi è esperto in un dato settore. In aggiunta, tale modus operandi, incitato dai mass media, si trasforma in modello da seguire a propria volta, nella routine di tutti i giorni, quando ci si ritrova a dover discutere di un tema qualsiasi: parlare senza ascoltare, sostenere posizioni “di pancia” rispetto a campi del sapere che nemmeno si conoscono, chiudersi rigidamente nel proprio punto di vista escludendo tutti gli altri. 

Creare nuovi spazi di incontro, di ascolto empatico e di espressione delle idee diventa allora necessario al fine di formare una comunità abile, umile ed autocosciente. Ma per fare ciò occorre partire dalle scuole e dalle università, potenziando e favorendo l’istruzione: improntarla al pensiero critico e al rispetto reciproco, all’analisi attenta delle fonti che convalidino le proprie e le altrui tesi, alla momentanea sospensione del giudizio in merito a quei casi che richiedono ulteriori approfondimenti, alla scelta accurata delle parole da usare, alla valorizzazione del sapere degli esperti che hanno dedicato la propria vita allo studio di una determinata disciplina, alla modestia. L’attenzione non superficiale sul funzionamento dei mass media e dei social media dovrebbe essere poi centrale, da parte delle scuole, poiché nell’epoca contemporanea le idee non nascono più dall’esperienza ma sono ridotte a mere opinioni. Essi sono formatori di mentalità delle persone che stanno alla base del loro comportamento.

Inoltre, occorrerebbe finanziare i Comuni di ogni città per promuovere corsi di formazione dedicati a temi caldi ed attuali, tenuti da studiosi, ad accesso gratuito ed aperti alla cittadinanza, con lo scopo di informare ed educare correttamente (come già il Comune di Carpi si sforza di fare – es. Festival della Filosofia, Festa del Racconto ed altri eventi culturali – ma non a sufficienza). Oltre alle conferenze e ai seminari, la creazione di gruppi di lavoro (workshop) favorirebbe, in aggiunta, la partecipazione attiva e il senso di comunità.

Infine, aumentare i fondi destinati alla ricerca in Italia (direi quadruplicare, considerato il nostro triste posizionamento rispetto agli altri paesi d’Europa) permetterebbe di riconquistare la credibilità e l’autorevolezza della scienza agli occhi dell’opinione pubblica.


Dott.ssa Alessia Goldoni
Psicologa e Sociologa

Pubblicato su "Tempo", settimanale di Radio Bruno - Mercoledì 24 Novembre 2021

La violenza sulle donne è un fenomeno sistemico e strutturale che occorre combattere su più fronti

La violenza maschile perpetuata contro le donne è sistemica, poiché le sue forme di espressione sono molteplici e trasversali: pervadono tutti gli ambiti di vita, dal contesto lavorativo all’ambiente domestico, dai luoghi di formazione a quelli di socializzazione, dalla sfera economica a quella politica ed istituzionale.

Oltre che sistemiche, l’oppressione e l’ineguaglianza di genere sono strutturali, poiché funzionali alle logiche del sistema di potere maschile (patriarcato) che nei secoli ha permeato, materialmente e simbolicamente, la cultura e le relazioni pubbliche e private. Tale sistema, a sua volta, risponde alle logiche di accumulazione del profitto e ai rapporti di sfruttamento radicati nella società più ampia. 

In questo senso, la questione della violenza mostra configurazioni che derivano da un insieme di meccanismi di subordinazione (basati sul genere, la classe e l’etnia) che si trovano alla radice del problema. Ovvero, il femminicidio e le violenze non sono altro che la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più articolato.

Il carattere strutturale viene messo in evidenza anche dal preambolo della Convenzione di Istanbul (2011), trattato internazionale firmato da 45 paesi, fra cui l’Italia, contro la violenza sulle donne e la violenza domestica (da cui, però, proprio la Turchia di Erdogan, che l’ha ospitata, è uscita sdegnosamente, in nome del recupero della “vera essenza della femminilità”: moglie-madre-serva-oggetto sessuale): “La violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione.” E ancora: “(…) la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere (…)”, “(…) la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.”

Tale trattato, basato sulle quattro P (Prevenzione, Protezione e sostegno delle vittime, Perseguimento dei colpevoli e Politiche integrate), dovrebbe essere applicato in maniera molto più efficace ed efficiente di quanto lo sia oggi, garantendo risultati di qualità e a lungo termine. Come? Agendo su più fronti in un’ottica sistemica. Ne citerò solo alcuni dei tanti.  

Sul fronte scolastico. – Promuovendo interventi preventivi, psicoeducativi ed interattivi di lunga durata sui temi dell’affettività e della sessualità nelle scuole di ogni ordine e grado. Quel poco che viene fatto oggi è di gran lunga insufficiente e non risponde alla vastità e alla gravità del fenomeno in atto. Inoltre, occorrerebbe formare chi si occuperà di gestire i progetti e coinvolgere attivamente esperti psicologi, sessuologi, sociologi, ginecologi e andrologi: ad oggi, purtroppo, non tutte queste figure vengono implicate. Inserendo materie di educazione al rispetto e alla parità di genere all’interno dei programmi ministeriali e invitando i principali movimenti di protesta e gli enti locali rappresentativi all’interno delle scuole, stimolando la partecipazione e l’attivismo concreto da parte di studenti, insegnanti, collaboratori scolastici e dirigenti. 

Sul fronte personale e famigliare. – Favorendo una presa di coscienza sul tema, attraverso corsi di (in)formazione gratuiti aperti alla cittadinanza e presieduti da esperti psicologi, sociologi e avvocati, che possano aiutare anche i genitori a crescere i propri figli e le proprie figlie all’insegna del rispetto e dell’uguaglianza fra uomini e donne. Purtroppo, le famiglie o i parenti delle vittime, spesso indifferenti o addirittura tolleranti, tendono a minimizzare, non sanno riconoscere la pericolosità di certe azioni e non osano denunciare per conto di terzi, se vengono a conoscenza di qualche episodio: occorre renderli attivi e consapevoli. 

Sul fronte virtuale e mass-mediatico. – Condannando il linguaggio sessista e gli insulti machisti/maschilisti che spopolano liberamente sui social network. Denunciando pubblicità discutibili che fanno trasparire la subordinazione della donna all’uomo, l’oggettificazione e la sessualizzazione del corpo femminile, la donna come angelo del focolare, la rigida divisione fra giochi e giocattoli “adatti” ai bambini e quelli “adatti” alle bambine (per non parlare della stereotipica divisione dei colori, rispettivamente blu per i primi e rosa per le seconde). 

Sul fronte dell’editoria. – Rilanciando saggi per adulti e favole e racconti per bambini e bambine ispirati al concetto di parità di genere, valorizzando le differenze e promuovendo il rispetto fra i sessi.

Sul fronte economico. – Garantendo una piena parità retributiva e scardinando i pregiudizi e gli stereotipi di genere relativi alle capacità manuali ed intellettive delle donne, spesso discriminate sul luogo di lavoro. Anche l’istruzione svolge un ruolo chiave, poiché sono poche le donne che intraprendono studi nell’ambito scientifico, tecnologico e matematico, nonostante remunerazioni più elevate rispetto a quelle orientate all’ambito umanistico e sociale. 

Sul fronte assistenziale e territoriale. – Assicurando il libero accesso ai Consultori, ai centri d’ascolto pubblici e privati, alle associazioni che si occupano di sostenere e di difendere le donne vittime di violenza, a quelle che si occupano della presa in carico di uomini autori di violenza, alle cooperative sociali, ai luoghi di aggregazione e di supporto sociale. È importante trasmettere il messaggio che le donne, e gli stessi uomini maltrattanti, possono rivolgersi a dei professionisti che sapranno aiutarli in casi di difficoltà e di pericolo. 

Sul fronte politico ed istituzionale. – Applicando misure più rigide e decisive, volte a condannare la violenza sistemica e strutturale che permea l’intera società. Rispettando e rendendo operative le convenzioni internazionali. Emanando leggi che prendano in considerazione non solo le donne ma anche altre categorie esposte agli stessi processi di violenza, diseguaglianza e discriminazione: la comunità LGBTQIA+ e i disabili. Prevedendo pene certe in materia di violenza di genere.

Sul fronte previdenziale e della sicurezza sociale. – Potenziando e migliorando le misure previdenziali esistenti rivolte alle donne. Assicurando agevolazioni e trattamenti mirati a favore di donne in gravidanza, donne povere, donne migranti, donne disabili, donne trans. 

Sul fronte medico e sanitario. – Garantendo l’autodeterminazione delle soggettività e la loro salute sessuale e riproduttiva. Limitando le obiezioni di coscienza, la violenza ostetrica e la pressante colpevolizzazione delle donne che scelgono di non diventare madri. 

Sul fronte sociale. – Avviando politiche di redistribuzione della ricchezza e delle risorse, del welfare e dei diritti, combattendo le disuguaglianze sociali, lo sfruttamento, la precarietà, la disoccupazione forzata, il lavoro gratuito – in primis il lavoro domestico e di accudimento dei figli ancora in gran parte relegato al genere femminile – nonché quello sottopagato, le disparità salariali. Tutte queste condizioni espongono le donne a maggiore vulnerabilità rispetto alla violenza maschile, oltre a ledere i loro diritti fondamentali. Occorre promuovere i principi dell’autonomia, dell’intersezionalità, della solidarietà, della prevenzione, della giustizia sociale, contro il razzismo, il sessismo e il classismo che spesso si intersecano producendo gerarchie e forme di segregazione. 

Non basta indignarsi nel silenzio di casa propria, supportando le contestazioni con qualche like sui social. Bisogna occupare lo spazio pubblico, creare rete, unirsi ai movimenti di mobilitazione esistenti e promuovere un processo di trasformazione profonda della società. Attivare una riorganizzazione in chiave paritaria dell’ambiente culturale, economico, politico, famigliare, mass-mediatico, relazionale, educativo, comunitario, lavorativo ed affettivo che ci circonda, porterà ad avanzare processi di autoaffermazione e di emancipazione dal giogo sessista.

È ora di uscire dalla comfort zone per costruire un mondo libero dalla violenza maschile e di genere. Tutti insieme, uomini e donne di tutte le età, dai bambini e dalle bambine agli anziani e alle anziane. Chi non si ribella, chi non scende nelle piazze per difendere la causa, non può nascondersi dietro la “neutralità” che facilmente scivola nell’indifferenza e nel menefreghismo e che spesso fa rima con ostilità o complicità.


Dott.ssa Alessia Goldoni
Psicologa e Sociologa

Pubblicato su "Tempo", settimanale di Radio Bruno - Mercoledì 9 Marzo 2022


Perché una società che valorizza il “merito” parte da errati presupposti

IL MINISTERO “DELL’ISTRUZIONE E DEL MERITO” DEL NUOVO GOVERNO NON CONTEMPLA CHI PARTE DA UNA POSIZIONE DI SVANTAGGIO SOCIALE, CULTURALE, FAMILIARE ED ECONOMICO

Il contesto scolastico nazionale ed internazionale è il riflesso di un sistema socioeconomico orientato alla competizione, alla performance e alla meritocrazia. Il concetto di “merito”, se ci atteniamo alla definizione fornita dalla Treccani, fa riferimento a “ciò che una persona riesce a ottenere o è degna di avere in virtù delle proprie capacità”. In ciò, un ruolo cardine dovrebbe essere esercitato dalla scuola. Ma la scuola soltanto, seppure ben organizzata e strutturata, riuscirebbe a favorire gli studenti meritevoli? Sarebbe veramente un antidoto alle disuguaglianze? Permetterebbe di emanciparsi e di mobilitarsi a livello di scala sociale?

Il merito, sbandierato ai quattro venti come valore da difendere, sovente spacciato per fintamente egualitario, rimarca che chi è povero lo è perché non ha saputo meritarsi la ricchezza, e quindi la sua povertà è una sua colpa; rimarca che chi è ignorante o mediocre lo è perché non ha saputo farsi il mazzo per studiare, e quindi la sua ignoranza o la sua mediocrità è una sua colpa. Questo ragionamento, spesso messo in moto da chi vive in posizioni di privilegio, non tiene in considerazione le condizioni di chi cresce in un contesto di svantaggio sociale, familiare, culturale ed economico. 

L’istituzione scolastica incide solo parzialmente sulle traiettorie esistenziali delle persone, poiché i successi – e gli insuccessi – ottenuti sono profondamente determinati e condizionati dal contesto in cui si è nati: se si sono ricevute le giuste stimolazioni culturali fin dalla più tenera età, da parte di genitori colti e con del tempo libero da dedicare ai figli, o se queste sono mancate perché la famiglia d’origine non ha avuto i mezzi intellettuali per poterlo fare e magari lavorava a ritmi insostenibili per molte ore al giorno o semplicemente era indifferente per i più svariati motivi; se si è cresciuti con una certa stabilità economica che ha consentito di soddisfare sia i bisogni primari che quelli materiali ed immateriali (es. discorsi di attualità che vengono fatti a tavola, frequentazione di ambienti stimolanti, libri e riviste sugli scaffali di casa, rete parentale, conoscenze stimolanti, capacità interazionali con persone esterne alla famiglia), o se questa mancava e quindi ha prevalso l’indigenza, l’abbandono, il disagio mentale e fisico, la disperazione, la violenza, la trascuratezza e l’angoscia legata alla sopravvivenza. Insomma, gli aspetti che possono incidere sono molteplici, oltre che trasversali, e si possono riassumere all’interno del concetto di “povertà”: povertà educativa, povertà economica, povertà familiare, povertà culturale, povertà sociale e relazionale, povertà abitativa, povertà lavorativa, etc. 

Se fino a qui, questo pensiero può essere conosciuto o accettato da tutte le persone di una certa sensibilità, la novità radicale, dimostrata a livello scientifico, è che la povertà produce, in negativo, un effetto diretto sulle abilità cognitive e sui processi di apprendimento; oltre che a causare più facilmente l’abbandono scolastico, il ritiro sociale, comportamenti disfunzionali, difficoltà relazionali e il conseguimento di titoli di studio inferiori. Nel campo delle neuroscienze, numerosi studi affermano che elevati livelli di stress (o più tecnicamente, di cortisolo) che derivano dal vivere in un contesto socioeconomico basso e da fattori ad esso correlati (stile parentale non supportivo, dinamiche familiari instabili o inadeguate, mancanza di stimoli e di sostegno all’educazione, chiusura verso il mondo esterno, etc.), abbia un impatto degenerativo sul sistema neuronale dei bambini, determinando ritardi o disfunzioni nei processi di sviluppo. Già a soli 3 anni, i bambini provenienti da situazioni di disagio e/o di povertà possono presentare fino a 12 mesi di ritardo nello sviluppo cognitivo, emotivo e sociale rispetto ai coetanei più avvantaggiati e/o più ricchi. 

Tali forme di disuguaglianza implodono ed esplodono durante gli anni della scuola dell’obbligo e finiscono per istituzionalizzarsi all’università e oltre, poiché chi ha le risorse economiche (tradotto: chi è ricco e/o può permetterselo) tende a frequentare atenei più prestigiosi dai costi vertiginosi e ad accedere, persino, al dottorato. Spesso le famiglie di questi studenti hanno i mezzi economici per sostenere tutte le spese e le rette richieste nel corso dei cinque (e oltre) anni di studio, aldilà di eventuali affitti per chi studia fuori sede. 

I tirocini post-laurea sono perlopiù non pagati (o sottopagati) e le scuole di specializzazione sono inaccessibili a più: non tutti possono permettersi mesi e anni di precarietà e di disoccupazione sulle spalle di genitori che lavorano per mantenerli ed assicurargli un futuro migliore. La crisi economica incombe più feroce che mai, instancabilmente, mettendo in ginocchio intere generazioni. 

La scuola può attenuare e ridurre le ineguaglianze, ma non è in grado di estirparle una volta per tutte al fine di produrre un processo di emancipazione collettiva. La scuola non può eliminare le disuguaglianze di fondo che ben si radicano nel sistema familiare di provenienza e che si imprimono persino a livello neuronale. 

Se bastasse impegnarsi, oggi in Italia, la mobilità sociale non sarebbe del tutto ferma come i numeri ci dicono: secondo l'ultimo Rapporto del World Economic Forum (2020), l'Italia è ad uno degli ultimi posti sul fronte della mobilità sociale. In particolare, la percentuale di probabilità di ottenere una laurea da parte dei figli di genitori con nessun titolo di studio è pari al 6%; quella dei figli di genitori con una licenza media è del 12%; quella dei figli di genitori con un diploma è del 48%; quella dei figli di genitori laureati è del 75% (Fonte: Inapp). Un’influenza importante viene esercitata dalla fascia reddituale che varia, a sua volta, in base alla provincia e alla regione di nascita (al Nord Italia, vi sono scuole di maggior qualità, un mercato del lavoro più favorevole e famiglie più stabili economicamente): chi nasce da genitori ricchi ha una maggiore probabilità di mantenere lo status sociale di famiglia, se non addirittura di innalzarlo ulteriormente; chi nasce da genitori poveri la possibilità di migliorare la propria condizione è decisamente ridotta. Ad essere determinante è anche il genere. Alcuni studi affermano che una maggiore mobilità verso l’alto si registra nei figli maschi, risultato innescato dalla minore partecipazione femminile al mercato del lavoro e dal gender pay gap, oltre che dalla difficoltà di raggiungere posti di potere e di leadership (ancora troppo spesso riservati agli uomini).

Ragionare sul merito senza considerare gli antecedenti e senza adottare un atteggiamento critico sulla questione, ovvero, senza porsi interrogativi sui temi fondamentali della classe sociale, dell’etnia, dello status, del ceto e delle dinamiche socio-familiari, è fuorviante e pericoloso, poiché legittima le disparità e, non prendendo in causa le condizioni di partenza, valorizza (a posteriori) le persone per i risultati ottenuti.

In definitiva, la meritocrazia è un sistema ideologico che legittima le élites, proteggendole e difendendole dalle classi svantaggiate e subalterne (queste ultime considerate colpevoli, perché “non si sono date abbastanza da fare” per scalare la piramide sociale), aumentando le ingiustizie e il divario sociale.

 Spesso, chi ha difficoltà economiche e/o non possiede gli strumenti culturali per riscattarsi da una condizione di svantaggio, non ha la forza, tantomeno il desiderio, di poter cambiare il corso degli eventi e di dare una svolta alla propria vita. Chi ha meno, tende a credere di meno in se stesso, poiché la povertà incide negativamente sull’autostima, oltre che sui processi cognitivi, e un possibile fallimento può rappresentare un’esperienza profondamente umiliante ed auto-colpevolizzante. E in ogni caso, non basta credere nelle proprie capacità: nel sistema in cui viviamo, in una società dilaniata dall’ingiustizia e da forme di disuguaglianza sempre più crescenti, riuscire ad emergere è un altissimo privilegio.


Alessia Goldoni
Psicologa e Sociologa

13/11/2022